Alice Carpi
20 Giugno, 2022
Prima di parlare delle differenze tra i lieviti indigeni e quelli selezionati, dobbiamo fare un passo indietro. Partiamo dall’inizio, ossia dal definire e spiegare cosa siano i lieviti, come agiscano sull’uva e la trasformino in vino, ed eventualmente dove finiscano una volta finito questo processo dai contorni magici.
Il vino è il risultato della trasformazione del mosto d’uva in alcol, ma come avviene questo passaggio? Fondamentali per questo processo biochimico sono gli zuccheri e i lieviti.
I lieviti appartengono alla famiglia dei funghi, per la precisione ai Saccharomyces cerevisiae. Sono organismi unicellulari invisibili a occhio nudo. Oltre a produrre alcol etilico, i lieviti che causano la fermentazione producono anche anidride carbonica. Prodotti secondari (e non sempre amici) sono la glicerina, l’acido acetico – acerrimo nemico del vino – acido lattico e succinico.
Nel mondo enologico ne possiamo incontrare di vario tipo, ma non tutti hanno funzioni positive, anzi: tra gli apiculati, ossidativi, contaminanti e fermentativi, i lieviti cosiddetti “buoni” sono gli ultimi. Gli apiculati tendono a svanire con l’aumento del grado alcolico del mosto, ossia man a mano che la fermentazione prosegue. Gli ossidativi, come suggerisce il termine, sono il campanello d’allarme della presenza di ossigeno. Scompaiono in fermentazione allo sparire dell’ossigeno. Sono invece pericolosi in seguito alla fermentazione – nei vini conservati male. In questi casi producono ossidazione dell’alcol etilico, una rovina per la maggior parte dei vini. I lieviti contaminati si trovano nelle cantine e la loro crescita è favorita da una pulizia non accurata dei recipienti. Risultato? il vino sa di criniera di cavallo. Letteralmente.
I Saccharomyces cerevisiae sono invece i “buoni”, quelli che trasformano in alcol lo zucchero presente naturalmente nel mosto d’uva, creando quel nettare senza cui – diciamocelo – non vivremmo così bene.
Come suggerisce il nome, indigeni sono tutti quei lieviti che non vengono aggiunti (selezionati, per l’appunto) dalla mano dell’uomo, ma si trovano naturalmente nel mosto: e come ci arrivano?
I lieviti indigeni responsabili della fermentazione non si trovano naturalmente nell’uva. O meglio: non è grazie ai lieviti presenti sui grappoli che la fermentazione alcolica è possibile. Le uve sane hanno infatti pochissimi lieviti saccharomyces cerevisiae; paradossalmente, troveremmo più lieviti su un acino danneggiato, rovinato da vespe, grandinato. Il grande apporto di lieviti indigeni lo offre il contesto: si trovano principalmente in cantina e in vigna, e per questo sono molto rappresentativi del contesto pedoclimatico dal quale provengono. Le uve sane sono fondamentali per far lavorare i lieviti che popolano la cantina che, come abbiamo detto, sono la maggioranza del totale. L’utilizzo di lieviti selezionati è anche (e purtroppo) una conseguenza della scarsità dei lieviti presenti naturalmente sulle bucce, che diminuiscono maggiori sono gli apporti di diserbanti, pesticidi e fertilizzanti.
La fermentazione che viene innescata naturalmente dagli apiculati e portata avanti dai fermentativi è dunque un processo naturale, che avviene grazie ai lieviti indigeni: compito dell’uomo non è quindi manomettere la trasformazione naturale di mosto in vino, ma piuttosto raccogliere i grappoli e preparare il mosto, affinché questo procedimento possa partire da se. I lieviti non sono naturalmente in grado di fermentare gli zuccheri su un frutto integro, perciò ecco che la nostra mano risulta fondamentale. Ma allora perché nei vini convenzionali si aggiungono lieviti selezionati? Ci sono dei rischi nel lasciare che i lieviti indigeni compiano tutto il lavoro?
Ebbene sì, naturale è bello: ma naturale è anche rischioso. Lasciare che l’indigeno faccia il suo compito può infatti portare a un vino splendido, da un lato, oppure irrimediabilmente difettato, dall’altro. Una fermentazione spontanea, punto comune di tutti i vini naturali, è incontrollabile: pertanto, si corrono dei rischi nel risultato finale. Ma cosa potrebbe succedere?
Per esempio, la fermentazione potrebbe bloccarsi momentaneamente. Oppure, risultare molto più lenta – e si sa, se un prodotto necessita di essere messo sul mercato, un ritardo importante potrebbe inficiarne i guadagni. Ma il rischio maggiore è che il vino che ne deriva non sia abbastanza buono. Questo accade quando una famiglia di lieviti “cattivi”, anziché sparire come dovrebbe man a mano che l’alcol si crea, prende il sopravvento. In questo caso, il risultato sono odori sgradevoli e un vino dalla beva piuttosto spiacevole.
Il sottoprodotto indesiderato o dal cattivo odore è un rischio che in pochi sono disposti a correre: immagina cosa significa, per un produttore, rischiare di perdere tutto il vino dell’annata! L’avvio lento della fermentazione, la chiusura che potrebbe causare fenomeni ossidativi irreversibili e la conseguente compromissione dei profumi e degli odori del vino, ha fatto sì che, nel 1890, il signor Muller-Thurgau introducesse il concetto di lieviti selezionati.
Se Muller-Thurgau fu il primo a parlare di lieviti inseriti manualmente, è solo nel 1965 circa che i lieviti selezionati vennero ufficialmente inseriti nel mondo enologico. Ad oggi, la maggior parte delle cantine si rifà all’uso dei lieviti selezionati. Ma che cosa sono di preciso?
Basti sapere che il famigerato Saccharomyces Cerevisiae è difficile da trovare naturalmente nell’ambiente. Nel mosto stesso i diversi lieviti “lottano” tra di loro per la supremazia, e non sempre il “buono” ha la meglio. Così, l’industria si è adeguata. I lieviti selezionati sono particolari ceppi di Saccharomyces da “laboratorio”, che sono stati estirpati in base alle loro qualità di sopravvivenza, ma non solo: i lieviti selezionati sono ceppi estrinsecati in base anche alle loro qualità aromatiche, ossia aumentano l’aromaticità di un vino. Si trovano in commercio sotto forma di polveri: i produttori acquistano le bustine di lieviti, e le addizionano al mosto.
I pro dell’utilizzo di lieviti selezionati rispetto agli indigeni sembrano piuttosto deducibili, ossia: una fermentazione più veloce, che quindi non rallenta la messa in commercio del prodotto finito, e permette una resa maggiore del vino in termini quantitativi. Inoltre, come suggerito sopra, i lieviti selezionati permettono un controllo umano sulla fermentazione. Resistono meglio ai fattori ambientali e non rischiano sottoprodotti collaterali spregevoli.
Ma parliamo dei contro: per centinaia di migliaia di anni (hai letto bene, sì!) il vino è stato prodotto da fermentazioni spontanee, senza bisogno di addizionare nulla. I lieviti selezionati aiutano il processo, vero, ma a che prezzo?
Il costo dell’utilizzo dei lieviti selezionati lo percepiamo in termini di sensazioni olfattive e soprattutto gustative. Se il lievito indigeno proveniente dalla cantina, dal grappolo, o dalla vigna racconta un territorio e le sue peculiarità, un lievito ideato in laboratorio annulla tutto ciò.
Il rischio maggiore nell’utilizzo dei lieviti selezionato rispetto agli indigeni è l’appiattimento delle peculiarità organolettiche di un vino: ci troveremmo dunque con uno chardonnay siciliano che ha esattamente gli stessi odori di uno chardonnay veneto! Il gusto del vino è unico, e allora che succede se lo standardizziamo? Succede che non rispettiamo il terreno da cui proviene, nè la mano che lo lavora sapientemente, creando le condizioni ideali per una fermentazione spontanea e naturale!
Implementiamo la biodiversità del nostro magico paese, e ricordiamoci che l’unica cosa di piatto che ci serve, quando degustiamo un vino, è il tavolo su cui appoggiamo la bottiglia. Il resto è bello che sia come il paesaggio italiano: scosceso, inaspettato, e soprattutto… unico.
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